Le Sezioni Unite nella sentenza n. 9142 del 6 maggio 2016 risolvono una questione di massima di particolare importanza in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo. La Suprema Corte afferma che è ammissibile una valutazione unitaria dei procedimenti di cognizione e di esecuzione solo ove la parte si sia attivata per procedere all’esecuzione prima dello spirare del termine semestrale di cui all’art. 4 della l. n. 89 del 2001 (legge Pinto).
L’art. 4 della legge Pinto (ante riforma 2012) recita che la domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva.
La legge Pinto dà attuazione all’art. 6 (diritto ad un processo equo) della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. L’art. 6 paragrafo 1 della CEDU prescrive che ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta […].
La domanda di equa riparazione del danno sofferto per l’irragionevole durata del processo proposta dalla signora Caia riguarda un procedimento civile iniziato nel gennaio 1975 e definito in sede di cognizione nel gennaio 2000. La controparte di Caia era stata condannata all’abbattimento di un fabbricato che oltrepassava il confine. Al giudizio di cognizione seguiva la fase di esecuzione intrapresa dalla ricorrente nel 2002 e ancora pendente al momento dell’introduzione della domanda ai sensi dell’art. 4 legge n.89 del 2001.
Caia domandava alla Corte di Appello di Perugia l’indennizzo per l’irragionevole durata del procedimento sia di cognizione che di esecuzione, unitariamente, perché solo con quest’ultima fase poteva ritenere soddisfatto l’interesse tutelato.
La Corte territoriale aveva dichiarato decaduto il diritto di proporre la domanda di indennizzo per il giudizio di cognizione poiché la definitività della decisione, ai fini del decorso del termine semestrale di decadenza ex art. 4 legge n. 89 del 2001, si riferiva al momento in cui si fosse conseguito il fine al quale il singolo procedimento era deputato e cioè, nel caso concreto, la sentenza che chiudeva il giudizio di cognizione.
Per quanto riguarda la procedura esecutiva, la Corte d’Appello riteneva che lo stallo fosse stato causato dalla ricorrente, la quale aveva lasciato andare in rovina il proprio edificio adiacente a quello oggetto di esecuzione rendendo impossibile la demolizione dell’altro edificio.
Caia proponeva ricorso in Cassazione affermando tra l’altro la doverosità della valutazione unitaria della fase di cognizione assieme a quella di esecuzione e la non addebitabilità a sé dei ritardi riscontrati nella fase esecutiva. Il Ministero della Giustizia proponeva un controricorso.
In seguito, la Sesta Sezione aveva rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite richiamando i principi citati in due sentenze n. 27365/2009 e n. 6312/2014 delle Sezioni Unite. Nel 2009 le Sezioni Unite dovettero verificare se la fase di accertamento del diritto (giudice ordinario) o quella di annullamento di un provvedimento (giudice amministrativo) costituissero una fase autonoma rispetto al procedimento esecutivo o al giudizio di ottemperanza; in questa decisione, affermavano che i due procedimenti dovevano considerarsi autonomi, che le rispettive durate non potevano sommarsi e che la domanda di equa riparazione sarebbe stata possibile solo al momento della formazione di decisioni definitive in ciascun procedimento. A differenza, con la decisione del 2014, la Corte Suprema, ricordava che la Corte Europea dei diritti dell’uomo in numerose pronunce aveva affermato che la fase di esecuzione costituisce parte integrante del processo ai fini dell’art. 6 della Convenzione sottolineandone l’unicità del procedimento.
Nel caso in esame, la Sezione semplice chiedeva se vi fosse compatibilità tra la struttura del procedimento della legge Pinto (prima della novella del 2012) con i principi convenzionali della CEDU in merito alla nozione di decisione definitiva cioè se la disciplina statale che prevede un termine di decadenza semestrale dalla definitività del giudizio debba riferirsi all’esito del procedimento complesso (accertamento + esecuzione) e se, posto tale principio, possa però assumere rilievo anche la condotta non attiva della parte, tenuta dopo la irretrattabilità della fase di cognizione e prima della fase di esecuzione; se, in altri termini, la dislocazione temporale del dies ad quem della definitività del giudizio […] non trovi limite nel maturarsi, tra una “fase” e l’altra, del termine semestrale previsto dall’art. 4 della originaria formulazione della legge 89 del 2001.
Nel proseguo della sentenza in esame, il Collegio analizza le decisioni della Corte di Strasburgo la quale si è di frequente posta l’obiettivo di evitare che una diversa interpretazione di giudizio definitivo potesse lasciare non soddisfatta l’esecuzione di un diritto. Le Sezioni Unite richiamano la sentenza Di Pede contro Italia e la sentenza Zappia contro Italia che riguardavano casi iniziati e trattati prima della legge 89 del 2011 e che quindi applicavano il generico termine decadenziale dell‘art. 26 (ora 35.1 – la Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, qual’é inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva) della CEDU.
La legge n. 89 del 2001 ha stabilito un termine interno e ha consentito (prima della novella del 2012) di iniziare il giudizio per ingiustificata durata del processo anche in caso di pendenza del procedimento presupposto. La Corte di Strasburgo in varie sentenze, sul tema delle normative nazionali, come l’italiana legge n. 89 del 2001, afferma che la necessità di una interpretazione convenzionalmente orientata dell’istanza nazionale di protezione, portata dallo sbarramento del termine semestrale di decadenza, non deve implicare l’abbandono delle tradizioni giuridiche e delle strutture processuali proprie di ciascun Paese membro, quante volte l’opzione risarcitoria in chiave conformativa passa realizzarsi nel rispetto delle une e delle altre. Così però, si pone un problema di compatibilità dei criteri nazionali e comunitari.
In definitiva, le Sezione Unite sostengono che a seconda della condotta delle parti, il procedimento presupposto può essere considerato unitariamente o separabile in “fasi”: se la parte lascia decorrere un termine rilevante – che va commisurato in quello di sei mesi, previsto dall’art. 4 della legge n. 89 del 2011 – dal momento oltre il quale un procedimento diviene irrevocabile per il diritto interno, la stessa non può poi far valere la ingiustificata durata (anche) di quel procedimento; se invece detta parte si attiva prima dello spirare di quel termine, al fine di procedere all’esecuzione, allora non si forma la sopra indicata soluzione di continuità nel procedimento finalisticamente considerato come un unicum e dunque può procedersi alla valutazione unitaria dello stesso ai fini della delibazione della sua complessiva ingiustificata durata […] in tale ipotesi dunque deve ritenersi che riprenda vigore la decadenza prevista dall’art. 4 della legge, con la conseguenza della perdita del diritto di far valere l’eventuale durata non ragionevole del procedimento di cognizione: detta preclusione, va aggiunto, non presuppone una presunzione di disinteresse a far valere l’indebita durata del processo di cognizione, atteso che il meccanismo sanzionatorio previsto dall’art.4 della legge n. 89 2001 è posto a tutela dell’interesse allo stabilizzarsi delle situazioni giuridiche, le volte in cui esse possano essere in sé suscettibili di valutazione ai fini indennitari.
La Cassazione, nella decisione esaminata, inoltre, afferma che la nuova prospettiva in materia di unicità procedimentale della sentenza delle Sezioni Unite del 2014, non può essere intesa in modo assoluto trascurando di valutare le differenze, sia strutturali che di finalità, che permangono tra il giudizio di cognizione e il procedimento di esecuzione: si può quindi fornire un interpretazione di tale norma (ante riforma 2012) che consenta un diverso rilievo della collocazione del termine di decadenza al momento del definitivo accertamento del diritto o al momento della definitiva realizzazione dello stesso, in dipendenza della condotta tenuta dalla parte; predicando invece un rigido rinvio al principio “unitario” – ritenendo con ciò solo di rafforzare la tutela del diritto al ristoro per la durata non congrua del processo- e dunque collocando lo spirare del termine semestrale all’esito della fase di esecuzione – se essa abbia avuto luogo- o, addirittura, solo allorché quel diritto irrevocabilmente accertato sia stato soddisfatto, si determinerebbe un vulnus al principio della certezza delle situazioni giuridiche.
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