Il danno da ritardo è il danno arrecato al privato qualora la PA non adotti il provvedimento nei termini fissati dalla legge. In punto risarcibilità del danno da violazione di interesse legittimo il danno da ritardo è una delle varie fattispecie. Al fine di approfondire le tematiche relative al risarcimento del danno da ritardo si deve partire dall’art. 2 bis della legge 241 del 1990 la quale prevede che le pubbliche amministrazioni e i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrativa, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. Il presupposto, che sottende alla norma, è il fatto che il legislatore ha ritenuto che la disciplina dei tempi di conclusione dei procedimenti sia stata posta dal legislatore nella consapevolezza del valore economico del tempo e dei rischi al medesimo connessi. La possibilità del risarcimento del danno da ritardo non deriva automaticamente dal ritardo in sé, ma deve essere provato che il ritardo dell’amministrazione è causa di un danno, che si è prodotto nella sfera giuridica del privato a seguito di una sua istanza; danno da ritardo che rientra nella categoria degli interessi pretensivi, cioè gli interessi connessi a conseguire un’utilità (ad es. … vincere un concorso pubblico), diversi dagli interessi oppositivi che sono quelli volti a conservare l’utilità (ad es. proteggere una proprietà da un’espropriazione per pubblica utilità). La questione della natura della responsabilità del danno da ritardo in capo alla pubblica amministrazione, dalla sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite della Cassazione, che ha aperto la strada del risarcimento del danno per violazione di interessi legittimi, è stata oggetto di numerose pronunce tese volte ad individuarne i vari elementi costitutivi.
La problematica giuridica che ha preso corpo recentemente, soprattutto a seguito della rimessione all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato da parte del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana n. 1136 del 2020, ha portato il Supremo Collegio, con la decisione n. 7 del 23 aprile 2021, a dover dirimere in modo chiaro e definitivo le seguenti questioni:
1) quale natura abbia la responsabilità della Pubblica Amministrazione per lesione di interessi legittimi sia da illegittimità provvedimentale, sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento;
2) come deve essere liquidato il danno;
3) quali effetti sul nesso di causalità possono avere eventuali sopravvenienze normative che possono sorgere dopo la conclusione del termine procedimentale;
In ordine al primo punto l’Adunanza Plenaria chiarisce fin da subito che la responsabilità in cui incorre la Pubblica Amministrazione, nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche, deve essere inquadrata nella responsabilità per fatto illecito ex art. 2043 c.c., sciogliendo definitivamente il nodo, dibattuto sia in dottrina che in giurisprudenza, della riconducibilità di detta responsabilità nell’ambito contrattuale, in forza della nozione di “contatto sociale” che sorgerebbe tra il privato ed e l’amministrazione e che potrebbe ad una sorta di responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c.
Non potendosi configurare un vincolo obbligatorio tra l’interesse legittimo del privato e il potere della pubblica amministrazione nell’esercizio della sua funzione, che sono su due piani distinti, l’unica veste giuridica che si può dare alla responsabilità della p.a. per violazione di interessi legittimi è quella aquiliana, che si basa sul principio generale del neminem ledere. Quali sono quindi gli elementi costitutivi del risarcimento. In primis il privato deve dare la prova dell’esistenza di un danno ingiusto e deve provare sia l’an che il quantum, che deve essere riconducibile, secondo la verifica del nesso di causalità, al comportamento inerte ovvero all’adozione tardiva del provvedimento conclusivo del procedimento, da parte dell’amministrazione” (inter multis, Cons. Stato, VI, 10 gennaio 2020, n. 235; V, 23 agosto 2019, n. 5810; 15 gennaio 2019, n. 358; IV, 29 settembre 2016, n. 4028; cfr. anche CGA, 21 ottobre 2019, n. 917). Si deve, quindi, dare la prova che il danno ingiusto sia derivato dal superamento del termine di legge, oltre al fatto che, nel caso di annullamento di provvedimento illegittimo, l’illegittimità del provvedimento non deve derivare da vizi formali a cui l’amministrazione deve determinarsi.Elemento di novità che proviene dalla decisione dell’Adunanza Plenaria è la posizione del privato che deve attivarsi a sua volta, secondo il percorso delineato dall’art. 2 commi dal 9 bis al 9 quinquies della legge 241/1990, tenendo un comportamento attivo affinchè la P.A. sia mossa a determinarsi. Detto comportamento attivo trova fondamento nell’art. 30 comma 3 del c.p.a. ed è quindi valutabile ai fini del quantum del risarcimento. Questo onere di cooperazione, secondo il Collegio, può essere ricondotto allo schema del “concorso colposo del creditore” che è previsto dall’art. 1227 c.c. come richiamato dall’art. 2056. Quindi, esaurito positivamente il vaglio sulla causalità materiale a fronte d’un evento dannoso causalmente riconducibile alla condotta illecita, a sua volta l’obbligazione risarcitoria richiede, sul piano dimostrativo, l’allegazione e la prova delle conseguenze dannose, secondo un (distinto) regime di causalità giuridica che ne prefigura la ristorabilità solo in quanto si atteggino, secondo un canone di normalità e adeguatezza causale, ad esito immediato e diretto della lesione del bene della vita ai sensi degli artt. 1223 e 2056 Cod. civ. (cfr., inter multis, Cons. Stato, V, 4 agosto 2015, n. 3854; Id., n. 5810 del 2019, cit.; IV, 9 maggio 2018, n. 2778; Ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3 e 4 maggio 2018, n. 5, cit.), senza che possa essere preso in considerazione l’elemento della prevedibilità del danno che è caratteristico del risarcimento del danno da responsabilità contrattuale. In relazione alla prova della condotta, del danno evento e del nesso di causalità materiale il privato danneggiato prova il non iure allegando l’inadempimento dell’Amministrazione alla regola procedurale (è poi l’Amministrazione a doversi giustificare) e prova il contra ius dimostrando la sussistenza dell’interesse legittimo e la serie lesione inferta al medesimo nei termini anzidetti. In merito alla quantificazione del danno secondo il Supremo Collegio “l’accertamento del nesso di consequenzialità immediata e diretta del danno con l’evento pone problemi di prova con riguardo al lucro cessante in misura maggiore rispetto al danno emergente”. La somma del risarcimento è quantificata attraverso il richiamo e l‘applicazione di alcune norme del codice civile. Innanzitutto l’art 1223 cc, che permette al giudice di determinare il risarcimento facendo riferimento al quantum effettivamente perso dal danneggiato, oppure dalla somma di denaro che in concreto lo stesso non ha potuto percepire a causa del danno subìto, oppure, ancora, dalla somma di entrambe le voci di danno emergente e lucro cessante. Qualora il giudice, però, non riesca a determinare in maniera precisa il quantum oggetto del risarcimento attraverso il riferimento al procedimento previsto dall’art 1223 cc in analisi, lo stesso potrà quantificare la somma attraverso una propria valutazione equitativa, elaborata prendendo in riferimento le varie circostanze di fatto del caso concreto. Tale valutazione equitativa è prevista dall’art 1226 cc. ed in particolare, in tema di prova del danno da lucro cessante, il Supremo Collegio ritiene che l’equo apprezzamento delle circostanze del caso assume una particolare rilevanza proprio per la quantificazione dei danni che si proiettano nel futuro.
Questa decisione è sicuramente di fondamentale importanza in materia di diritto al risarcimento del danno a seguito di comportamento o atto illegittimo della Pubblica Amministrazione e scioglie, si spera definitivamente, la questione delle norme di diritto applicabili sul tema.
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